di Paola Parigi
Sembra paradossale, ma anche se vengono pagati per occuparsene, spesso il consulente o il responsabile del marketing legale hanno il loro primo ostacolo all’interno dello stesso studio committente.
La scelta di affidarsi a un professionista o di costituire la funzione di marketing dentro lo studio è frutto di un bisogno, ma non tutti gli avvocati sono davvero convinti che le tecniche di marketing siano utili ai loro scopi e consentano loro di raggiungere gli obiettivi che si sono prefissi.
La stessa definizione di quel bisogno è il primo passo verso la soluzione del problema. Infatti ci si accorge del bisogno quando questo ha già creato dei problemi, come ad esempio:
A volte gli avvocati sono sicuri che la soluzione ai loro problemi sia comunicare un po’, rendersi visibili.
La maggioranza è scettica sull’approccio organizzativo e manageriale al marketing, percepito come uno sforzo inutile e costoso, dalla dubbia efficacia.
Naturalmente si sbagliano.
«Sono in grado di farlo da me, in fondo l’ho sempre fatto»
Così molti avvocati approcciano il marketing e cominciano a boicottarne i risultati già nella fase di impostazione degli obiettivi.
Molti coltivano la convinzione di essere bravi e capaci in tutto, hanno la certezza di conoscere il proprio mercato meglio di chiunque e di non avere bisogno di uno sguardo esterno.
Altri sopravvalutano la propria dote di autocritica o sono convinti di non averne bisogno per mancanza di difetti.
«I numeri non servono a niente, io conosco i miei clienti meglio di chiunque»
La diffidenza si estende spesso alle analisi di marketing che, in quanto sconosciute, sono considerate con scetticismo.
Analizzare il fatturato prodotto dai singoli clienti o dalle diverse aree di attività dello studio, o, peggio ancora, dai singoli soci è considerata una ingerenza insopportabile.
Le radicate convinzioni si estendono spesso anche alle source of business, cioè ai collettori e alle fonti di clientela, che sono considerate note e controllabili, mentre molto spesso sono ignote e insospettabili e come tali alla mercè dei concorrenti.
Non tutti gli studi tengono traccia della provenienza dei clienti e dei flussi della loro fedeltà allo studio e quando si propone loro di farlo sono scettici sulla necessità e sulla utilità di questa analisi.
«I miei clienti sono tutti soddisfatti, troverei umiliante interrogarli su questo»
Proporre a uno studio legale quella che in gergo si chiama customer satisfaction analysis è spesso uno sforzo destinato a fallire.
Non è facile per un avvocato consentire ai clienti di giudicare il proprio operato come giudicherebbero la qualità del cibo di un ristorante, il servizio di un hotel o di una clinica privata.
Intendiamoci, autovalutarsi non è facile per nessuno e nemmeno esporsi alle critiche, ma l’esercizio, se laicamente utilizzato per comprendere i propri errori e i propri punti di forza, è molto utile e fornisce numerosi spunti di azione.
Come approfondito in questo articolo di Annamaria Testa, infatti, le due tendenze, quella a sovrastimarsi e quella a fare il contrario, convivono praticamente in tutti noi.
I dati invece sono importantissimi, perché ci permettono di conoscere non solo la valutazione altrui sul nostro operato (obiettivo diretto), ma anche di misurare il nostro errore di autovalutazione (obiettivo indiretto), così da non ripeterlo o di valutarne lo scarto.
«Un estraneo non può capire il mio lavoro»
Naturalmente è considerato estraneo non solo il consulente esterno, che per sua natura lo è, ma anche l’addetto che si sia assunto all’interno dello studio per occuparsi di marketing, quale che sia la loro esperienza e formazione.
Se si tratta di un ex avvocato, verrà tacciato di avere una formazione troppo simile a quella dei suoi interlocutori, se non ha alcuna esperienza in questo senso, verrà guardato con sospetto e considerato, nella migliore delle ipotesi, un alieno.
Questo argomento viene approfondito in un altro articolo, ma, in sintesi, le linee di condotta basate sull’esperienza sono queste: