gender gap professione legale
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Le Cenerentole
del Foro

Sono passati più di 10 anni da quando Paola Parigi ha scritto questo articolo per TopLegal, forse è cambiata la terminologia, certamente qualcuna delle statistiche, ma sicuramente è cambiata la consapevolezza delle professioniste.  Si continua a parlare di gendergap e oggi più che mai, con un conflitto alle porte dell’Europa, si deve registrare che la parità tra uomo e donna, insieme a molte altre libertà è diritti civili è ancora molto lontana.


 

Il tema è caldo. Si parla di quote rosa nei CdA delle società quotate, di mestieri e professioni oramai completamente femminilizzate e interi settori della vita pubblica in mano a “manovalanza” femminile.

Questa diffusione del rosa nelle attività produttive non corrisponde, purtroppo, ad una adeguata rappresentanza nella classe dirigente.

Tra gli avvocati meno che quarantenni, le donne sono il 56% (fonte: Cassa Forense). Pur avendo doppiato numericamente i colleghi maschi già da alcuni anni, si dicono generalmente insoddisfatte, frustrate dall’inconciliabilità dei tempi di lavoro e famiglia e soprattutto mal pagate; rispetto agli uomini, naturalmente (Fonte OPGA).

La sperequazione arriva fino al 50% dei redditi dichiarati (Fonte Cassa Forense).

Le differenze si manifestano un po’ in ogni ambito, dal piccolo studio al grande studio, dalla provincia alla grande città, tra gli avvocati d’affari quanto in quella nelle aule giudiziarie.

Essere chiamate “signore” o “dottoresse” invece che “avvocato” è il primo sintomo della sperequazione.

Si dice che quando manca il lemma per identificare un concetto, è il concetto stesso che non esiste. Sarà per questo che gli italiani hanno mille e più nomi per la pasta e il resto del mondo conosce solo maccaroni e spaghetti; sarà per questo che gli esquimesi definiscono il ghiaccio, la neve e tutte le loro sfumature con centinaia di parole diverse, come i beduini le dune nel deserto e i popoli urbanizzati coniano continuamente nuovi termini per definire il vissuto comune.

Non molto tempo fa, nel 1919 è stata finalmente abolita la legge che impediva, tra l’altro, alle donne, di ricevere mandati (contratto per il quale serviva l’autorizzazione maritale); solo quel giorno fu possibile essere ammessa all’iscrizione all’Albo degli Avvocati,  per la prima donna, Elisa Comani di Ancona, ponendo fine al monopolio maschile.

Nello stesso anno, Lidia Poët, che chiedeva di essere iscritta all’Albo dal 1883, vide realizzato il suo sogno di diventare avvocato, quando aveva già compiuto i 65 anni.

Da allora, tuttavia, nessun appellativo per le professioniste ha preso forza e vige tutt’ora la maggiore confusione su come rivolgersi a lei.

Nella nostra lingua, quando un sostantivo finisce in “o”, il suo corrispondente femminile, finisce in “a”. Come è stato per maestro/a, sarto/a, …..

Avvocata sarebbe quindi un appellativo coerente con le regole grammaticali, ma non piace e non “funziona” a livello comunicativo. Sarà perché nella nostra cattolicissima Italia, di Avvocata ce n’è una sola, la madonna, ma il termine non piace, per primo alle donne.

La diffusa distorsione “avvocatessa”, affonda le sue origini in una, neanche troppo velata, accezione negativa attribuita nel XIX secolo alla “generalessa”….

L’uso di “avvocato”, senza cambio di desinenza, per l’uomo e per la donna, mostra di far prevalere il ruolo rispetto al genere di chi lo impersona in quel momento.

Come accade per il /la giudice (la desinenza in “e” non cambia, tra femminile e maschile), dovrebbe essere solo adattato l’articolo o gli eventuali aggettivi: l’avvocato  (lo avvocato o la avvocato), il tuo avvocato, la tua avvocato…

La questione non è di lana, tantomeno caprina.

Lo sanno bene le donne. A cominciare dal teste con cui si ha appuntamento per l’udienza che si guarda intorno spaesato e al nostro arrivo ci chiede quando arriverà l’avvocato Parigi, al collega che nella negoziazione di un contratto si rivolge a te come “signora” o, peggio “dottoressa”, sfiorano l’insulto e insinuano un senso, neanche tanto vago, di inadeguatezza.

Le battaglie da compiere per una parità nella professione, naturalmente, sono molte altre. Citiamone alcune:

  • Maternità

La Cassa calcola l’indennità per l’avvocata madre sul reddito dei suoi due anni precedenti. Supponendo che i figli si facciano da giovani, si suppone che i redditi siano i più bassi dell’intera vita professionale. Anche l’indennità per il secondo figlio si basa sui redditi dei due anni precedenti e normalmente il secondo figlio si fa entro i due anni dal primo. Quindi il reddito su cui si calcola l’indennità… è, nella maggior parte dei casi, l’indennità!

  • Tariffe

Le donne applicano le stesse tariffe dei colleghi maschi? Può darsi, tuttavia, paiono essere le uniche ad occuparsi del gratuito patrocinio nelle vicende di diritto di famiglia e minorile, con quel che comporta in termini di reddito e soprattutto di flusso di incassi.

  • Carriera

Quand’anche le donne siano collaboratrici di studi legali che le “stipendiano” con un corrispettivo fisso, questo è normalmente più basso dei colleghi maschi nonostante esse siano, in genere, giudicate “migliori” (nel senso di più preparate, più scrupolose e più affidabili dei colleghi), e spesso restano indietro rispetto alla carriera nello studio. Le donne che fanno parte di “board” di studi legali internazionali sono ancora meno del 30%, mentre rappresentano la maggioranza dei professionisti.

  • Rappresentanza

È il tasto più dolente e lo si tocca nella loro rappresentatività politica: solo due (e dopo molti anni, quindi “finalmente almeno due”), donne sono state nominate Consigliere nazionale nel CNF, nessuna all’OUA, e solo 13 sono Presidente del proprio Ordine territoriale.

Lungi dall’esserne le principesse, a quanto pare, le avvocate sono ancora le cenerentole del foro.

Per chi fosse interessato ad aggiornare i numeri dell’avvocatura, a questo link sono disponibili i dati aggiornati al 2020 da Cassa Forense e va segnalata questa iniziativa 8 marzo tutti i giorni.