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#Innovation is the new black

Uno dei trend topic del momento in tema di professione legale, sui social, negli eventi e sui media è senz’altro #innovazione. Ma cosa si intende per innovazione legale?

Parole come legaltech, intelligenza artificiale, legaldesign, giurimetria, analisi predittive, risk assessment e blockchain vengono citate spesso ma non sempre a proposito, come elementi irrinunciabili per il futuro della professione.

La newsletter di novembre 2019

Di cosa parliamo quando parliamo di innovazione legale

di Paola Parigi

 

Uno dei trend topic del momento in tema di professione legale, sui social, negli eventi e sui media è senz’altro #innovazione. Ma cosa si intende per innovazione legale?

Parole come legaltechintelligenza artificialelegaldesigngiurimetria, analisi predittiverisk assessment blockchain vengono citate spesso ma non sempre a proposito, come elementi irrinunciabili per il futuro della professione.

La gran quantità di inglesismi, che nasconde concetti dal significato complesso il cui senso non è immediatamente percepibile, fa passare un duplice messaggio, non molto rassicurante per la maggioranza degli avvocati:

  • che l’innovazione corrisponda alla tecnologia e dunque richieda copiosi investimenti;
  • che l’innovazione richieda competenze proprie dei soli nativi digitali.

In sintesi, con l’entusiasmo per il nuovo che avanza, si diffonde una strisciante paura: che l’innovazione legale possa riguardare solo i grandi studi e solo i giovani avvocati.

Tra i professionisti, per chi non se ne fosse accorto, è iniziato, su questi temi, un conflitto generazionale inedito, tra i cosiddetti Millennials, che si sentono pronti ma non hanno ancora raggiunto il potere negli studi e i Boomers, che hanno vissuto la grande stagione delle law firm, sono al top, ma stanno perdendo il loro slancio creativo.

Numerose e blasonate ricerche danno conto dell’opinione comune, tra i professionisti, che sia inevitabile investire in tecnologia, entusiasti startupper brindano al lancio di nuove applicazioni “intelligenti” che automatizzano, semplificano e meccanizzano la produzione di alcuni dei servizi tipici forniti dagli avvocati ai loro clienti.

Ma quali saranno le killer application che faranno felici sia clienti degli studi legali che gli avvocati, è ancora presto per dirlo.

Il fenomeno degli studi/società di capitali che si servono dei piccoli avvocati come le grandi firme della moda fanno dei cottimisti fa entrare con prepotenza negli studi anche nuove modalità di lavoro come lo smart working, l’agile working il co-working, e persino l’outsourcing e figure come il coach e il team builder, fin’ora noti solo al mondo delle aziende.

Alcune di queste alternative al lavoro d’ufficio come l’abbiamo sempre conosciuto offrono soluzioni flessibili a problemi annosi, sono viste come portatrici di un migliore work-life balance, di provvidenziali soluzioni al gender gap e, più in generale, persino migliorative del welfare negli studi legali, sempre per dirla con gli inglesismi di rito.

Ma siamo certi che sia questa l’interpretazione corretta al giusto spirito innovativo di cui ha bisogno l’avvocatura italiana? 

Oltre a quello generazionale, sono in corso altri conflitti, mai sopiti, quello tra grandi studi e piccoli studi e quello, ancora più profondo, tra studi di provincia e studi metropolitani, dove i piccoli e i provinciali finiscono per rinunciare alle proprie storiche insegne e a lanciarsi in alleanze equilibristiche con i big del settore, mentre altri si accollano considerevoli costi per dar lustro a brand polverosi pur di presenziare alle lunghe notti degli awards in stile americano.

Una rivoluzione sta avvenendo ed è sotto gli occhi di tutti.

Non risiede però nella struttura a block chain delle memorie informatiche o nella robotizzazione del lavoro, che sono logiche conseguenze di miglioramenti inevitabili nella tecnologia le quali, come in tutti gli altri settori, prima si strutturano, poi emergono e, se e quando si rivelano vantaggiose, entrano a far parte del quotidiano e quindi modificano sistemi di produzione, abitudini d’acquisto, stili di vita.

Il lavoro dell’avvocato è quello di tutelare i diritti del cliente, tanto affiancandolo come consulente in operazioni societarie e finanziarie, tanto eliminando potenziali problemi dai contratti nei diversi mercati in cui opera la sua azienda, tanto, ancora, rappresentandolo e difendendolo avanti le diverse autorità giudiziarie, sempre più alternative a quelle tradizionali.

La vera #rivoluzione è nascosta nella riscrittura complessiva del rapporto avvocato cliente alla luce dei nuovi linguaggi sociali, interpersonali e, di conseguenza, lavorativi.

La comunicazione con il cliente ha preso nuove vie, per ogni avvocato che si illude di servirsi dell’intelligenza artificiale per scrivere un contratto, ce n’è uno che si rabbuia perché i clienti chiedono appuntamenti (o consigli) su WhatsApp, magari di domenica mattina.

Per ogni grande network che decentra i suoi uffici periferici per realizzare marginalità, ci sono piccoli ma efficienti network de facto che gestiscono sedi distaccate grazie al solo uso intelligente (e gratuito) di Skype, Telegram, Dropbox e Wetransfer.

Il vero valore innovativo del lavoro del professionista è la capacità di una visione strategica che si concentri sul bisogno del cliente, sull’esistenza di un mercato con regole variabili e competitive, ma rimetta il ruolo dell’avvocato al centro di quel rapporto.

L’innovazione legale e i nuovi strumenti consentono di sperimentare forme di collaborazione e forme societarie inedite, ma il problema ( intoccato dal 1939), del divieto di formalizzare un rapporto di lavoro subordinato tra l’avvocato e lo studio legale, non è mai stato risolto dall’avvocatura e gli avvocati italiani, a differenza dei loro colleghi europei e statunitensi, così che grazie ai nuovi lavori smart , gli avvocati italiani non hanno perso il posto fisso, semplicemente perché non lo hanno mai ottenuto. 

Se l’avvocatura avesse percorso la strada del superamento della dialettica capitale/lavoro ora avrebbe un’identità, come comparto professionale, gli investimenti in tecnologia sarebbero strutturali e lo riguarderebbero in maniera trasversale, integrale, attraversandolo per migliorare la percezione sociale della professione, della categoria, non per generare inutili e improduttivi solchi e divari tra le sue diverse anime.

L’avvocatura avrebbe il ruolo che merita nel processo di informatizzazione della PA e della Giustizia, e non ne sarebbe, come è, un mero spettatore gravato in molti casi da un ritardo nell’apprendimento.

Gli strumenti tecnici, semiotici e tecnologici e le intelligenze per dominare i cambiamenti ci sono e andrebbero utilizzati in maniera sistemica, non individuale, lasciando che i più sensibili vengano imbrigliati da impronunciabili catene.